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STORIA DEL TERRITORIO AURUNCO
Non sembrano esserci dubbi sul fatto che le origini degli Ausoni, popoli della “Terra dell’Aurora e del Sole” detti poi dai Romani Aurunci, risalgano ad epoca preistorica. Dell’antica popolazione degli Aurunci si conservano ancora i resti del santuario eretto in onore della Dea Marica – “la dea dell’acqua che brilla sotto la luce del sole” – il cui culto risale al VII secolo. a.C. Si ritiene che il tempio fosse di vitale importanza per la gente locale, dedita principalmente ad una pastorizia nomade, che si affidava a questa entità divina in cambio di protezione dalle forze spontanee della natura.

Qualche secolo più tardi arrivò la conquista romana. Il censore Appio Claudio Cieco, che nel 312 a.C. intraprese l’edificazione della Via Appia, nelle lunghe soste dovute alle difficili condizioni di lavoro che incontrò nell’attraversare i rilievi aurunci, ebbe modo di assaggiare un pregiato vino locale che veniva prodotto sul versante collinare, cantato poi da numerosi autori del passato tra cui Orazio, Plinio il Vecchio, Ciecerone col nome di Cecubo, la cui etimologia viene fatta derivare dalla fusione di Caecus e bibendum, cioè il vino bevuto da Cieco.

La sua vicinanza con Roma e le sue particolari caratteristiche paesaggistiche resero quest’area un luogo privilegiato per l’impero romano, che vi edificò città portuali ed imponenti opere architettoniche.

Tutto l’arco del Golfo di Gaeta fu intensamente occupato a partire dalla tarda età repubblicana (II-I secolo a. C.) da impianti produttivi e complessi residenziali, edifici funerari, porticcioli e peschiere appartenenti a insigni esponenti dell’aristocrazia romana che elesse questa zona a luogo privilegiato di soggiorno.

Tra questi anche Marco Gavio, conosciuto come Apicio, un personaggio passato alla storia come il più grande esperto di gastronomia romana, a cui si attribuisce il De re coquinaria, un documento storico di grande interesse antropologico, che racchiude l’evoluzione delle abitudini alimentari della classe dominante romana.

Con la fine dell’impero romano, l’invasione longobarda e l’impaludamento di alcune aree costiere in prossimità del fiume Garigliano le popolazioni dei centri costieri furono costrette ad abbandonare le zone pianeggianti e a trasferirsi sulle alture dei Monti Aurunci, dove iniziarono a dedicarsi alle attività agro-pastorali.

La conversione delle terre incolte e la pratica delle “cese", che consisteva nel disboscamento e nella realizzazione di terrazzamenti con muri di pietra a secco per la coltivazione dei campi, diedero avvio ad un processo di trasformazione profonda del paesaggio montano, soggetto ad una crescente attività antropica che si protrasse per tutto il Medioevo.

Intanto sulle colline alle pendici dei Monti Aurunci sorsero numerosi centri abitati, tanti piccoli borghi che nel tempo assunsero i connotati di veri e propri castra, fortificazioni destinate al controllo di porzioni di territorio rimaste indifese, la cui economia traeva linfa dalle risorse della montagna.

Gli statuti medievali delle Universitas aurunche sono la testimonianza più evidente dell’economia agro-pastorale che quelle popolazioni avevano costruito grazie a un profondo legame con la terra; la presenza capillare dell’ulivo e della vite faceva da sfondo alle coltivazioni cerealicole, mentre le aree montane più alte e impervie costituivano una risorsa per i pascoli e per i boschi.

Anche la neve aveva una sua peculiare utilità nel sistema economico. In una nota risalente agli statuti di Gaeta del 1631, si riportano le norme della vendita di neve; tra i trasportatori si annoverano i pastori, i quali si impegnavano a garantire una fornitura di ghiaccio alla città da maggio a ottobre. I blocchi venivano trasportati a valle di notte a dorso di mulo, percorrendo le vie della neve, come vengono chiamate ancora oggi.

Pian piano questo tratto della penisola italica iniziò ad avere il ruolo di confine strategico tra il mondo bizantino ed il potere papale. A partire dal IX secolo, con la nascita del Ducato di Gaeta, si sviluppò nella zona un fiorire di attività mercantili e commerciali, riguardanti soprattutto i traffici marittimi e il commercio dell’olio, la cui produzione locale era garantita da decine di frantoi sparsi su tutto il territorio.

In una lettera del XV secolo, conservata nell’Archivio di Stato di Modena, l’ambasciatore di Roma scrive al duca d’Este Ercole I: “Ho facta ogni diligentia per Ripa et ogni altro luoco di Roma per trovare olive di Gaeta, quale mi recerca V.ra Excellentia” (Liberace, 2002).

La coltivazione dell’olivo è stata di fondamentale importanza per l’economia del territorio, tant’è vero che le piante venivano salvaguardate dagli statuti. L’ufficiale regio si impegnava a far rispettare una serie di norme che vietavano di sradicare, tagliare o incidere gli olivi senza licenza del consiglio della città.

Il Codex Diplomaticus Cajetanus, una raccolta di documenti storici risalenti al medioevo, ci consegna un’altra preziosa testimonianza legata al territorio aurunco; all’interno di un documento che riporta la registrazione di un contratto di locazione di un mulino, sembra esserci quella che viene definita la più antica testimonianza scritta della parola “pizza” (“carta 95 anno 997. Locazione di un mulino presso il fiume Garigliano e del terreno annesso di proprietà del vescovato […] Solo ogni anno nel giorno di Natale del Signore voi e i vostri eredi dovete corrispondere sia a noi che ai nostri successori, a titolo di pigione per il soprascritto episcopio e senza alcuna recriminazione, dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua della Resurrezione…”).

Il periodo medievale ha lasciato una ricca testimonianza in tutto il territorio di opere di grande interesse artistico: sulle pareti della Cripta di San Luca, all’interno della chiesa dedicata all’omonimo Santo nell’antico borgo medievale di Maranola, arroccato alle pendici dei Monti Aurunci, sono raffigurate 6 Madonne del Latte del XIV secolo, un’iconografia cristiana della Vergine Maria nell’atto di allattare il figlio, a cui si rivolgevano le puerpere chiedendo di intercedere per una lattazione sufficiente soprattutto durante i periodi di carestia.

Dalle testimonianze storiche impresse nel paesaggio e nella cultura di questi luoghi emergono numerose tracce di una civiltà contadina e montanara che per lungo tempo ha vissuto in equilibrio tra gli insediamenti urbani e l’ambiente circostante, sviluppando una conoscenza capillare del territorio e delle sue risorse naturali, basti pensare all’elaborazione dei numerosi utensili e manufatti artigianali, ognuno dei quali richiedeva la conoscenza e l’utilizzo specifico di una determinata tipologia di pianta.

Intanto nello stesso periodo i flussi commerciali che interessavano le zone costiere diedero grande impulso all’economia del territorio intessendo una fitta rete di scambi che si dipanava nel bacino del Mediterraneo, nel Medio Oriente e nell’Europa del Nord.

Nelle delibere comunali che riportavano gli acquisti di derrate fatti in occasione delle visite di personaggi illustri si possono trovare lunghi elenchi dei prodotti alimentari che circolavano sul territorio: “Sciruppata, pignacolata con cannella fina, biscottini, capponi, piccioni, gallo d’India, presutti, provole, caso di Sicilia, caso di montagna, maccaroni, baccalà, tonninole, strulli, passiti, pignoli, musto cotto, agli, rummi, cefali, broccoli, cardoni, sellari ed insalata, farina, cannella, insogna, acedo, salsiccie, carne di porco, lardo, pepe, pane e frutta” : questa era la varietà di alimenti che si poteva reperire nella zona tra il XVI e il XVII secolo, quando il territorio era sotto il controllo del vicereame spagnolo.

A partire dal XVIII secolo la storia del territorio aurunco è strettamente connessa a quella del Regno di Napoli. Con un sistema amministrativo di tipo feudale, tutta l’area divenne soggetta al controllo di grandi potentati romani e napoletani, i quali si avvicendarono nel dominio di questa parte del Lazio asservendo la popolazione locale fino all’abolizione del feudalesimo nel 1806. In questo periodo imperversava il fenomeno del brigantaggio, le cui controverse vicende hanno segnato la storia del territorio aurunco, che veniva a caratterizzarsi sempre più come un territorio di confine fra lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico.

Nella Statistica del Regno di Napoli, un’ indagine ordinata dal governo murattiano nel 1811, il territorio aurunco veniva così descritto: “L’aspetto de’ monti in generale è piacevole, ed ubertoso, il loro colore in distanza è un bleu fosco annebbiato, essi sono per la maggior parte ricoverti di boschi, e di pascoli eccellenti […] pari a quello de’ monti è anche l’aspetto delle colline in generale, perché oltre alle piantagioni di ulivi, e di altri alberi fruttiferi, sostengono assai bene dilettevoli boschetti di agrumi e di aranci, che vi prosperano mirabilmente, soprattutto dal lato che guarda il mare…ne’ luoghi montuosi sogliono col latte caprino preparare alcune caciuole, mischiandosi la pimpinella queste riescono di un sapore caustico, ma sono ricercate dai bevoni, perché invitano a bere”.

Il territorio aurunco si trovò al centro di grandi avvenimenti legati alla storia del Regno di Napoli, tra cui l’assedio di Gaeta del 1861 che sancì la caduta del Regno di Napoli e l’inizio dell’Unità nazionale. Con l’Unità d’Italia si manifestò il bisogno di uniformare le tecniche agricole e comprendere a pieno le condizioni economiche di un Paese la cui risorsa principale era l’agricoltura.

Nella seconda metà dell’Ottocento, su proposta del Senatore Stefano Jacini, si diede avvio ad un’inchiesta sulla condizione della classe agricola su tutto il territorio italiano. Nell’illustrazione del circondario di Gaeta si riporta una descrizione dettagliata delle varie colture tra cui le più diffuse erano: olivi, viti, agrumi, fichi, carrubi, grano, legumi, pomodori, cavoli, carciofi, patate, cipolle.

Con l’arrivo delle due Guerre Mondiali le condizioni della popolazione aurunca divennero assai difficili, fino al punto in cui, finiti gli assedi e i bombardamenti, sopraggiunse una profonda miseria che spinse la popolazione ad emigrare. Superate le miserie del dopoguerra il territorio aurunco iniziò un lento processo di ricostruzione e di modernizzazione che migliorò il tenore di vita della popolazione.

Negli anni del boom economico la popolazione aurunca ritornò a crescere, i contadini e i pescatori a poco a poco abbandonarono le terre e il mare e la crescente urbanizzazione in pochi decenni trasformò profondamente il territorio.

Al crescente fenomeno della speculazione edilizia si contrappose la volontà di tutela ambientale e di sviluppo sostenibile delle aree costiere e della montagna, favorita non solo da nuovi strumenti legislativi, ma anche da una maggiore attenzione dell’opinione pubblica rispetto alle nuove politiche ambientali.

Si arrivò così negli anni ’90 all’istituzione del Parco Regionale dei Monti Aurunci a tutela dell’area montana e del Parco Regionale Riviera di Ulisse che interessò la parte costiera del territorio aurunco. Oggi i due parchi vengono vissuti sempre più come espressione di un territorio che racchiude in se un enorme giacimento di risorse, rappresentate non soltanto dalla bellezza del paesaggio naturale, ma anche dalla presenza di innumerevoli beni culturali: siti archeologici, centri storici, prodotti tradizionali dell’agricoltura e dell’artigianato locale.

Una complessa e variegata unità territoriale che si distingue per la sua incredibile diversità ambientale e culturale.

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